Già il titolo del libro “La nostalgia felice” dimostra l’ispirazione con cui la scrittrice si mostra: “Tutto quello che amiamo diventa racconto.”

L’autrice

Pubblicato dalla casa editrice Voland, la scrittrice, Amèlie Nothomb, di cui tanto si discute per le sue scelte narrative, racconta il suo rapporto con il Giappone, fatto di sentimenti contrastanti e grande rispetto. Il Giappone la rappresenta, la identifica e si manifesta, a tratti, nel modo di essere della Nothomb, ma è anche quel Paese che non ha più voluto pubblicare i suoi libri di successo dopo “Stupori e tremori”, libro in cui racconta le differenze tra cultura occidentale e orientale. Ora, dopo sedici anni ha l’opportunità di ritornare in Giappone per un progetto televisivo, un documentario sul legame tra la Nothomb e quel Paese da cui è stata rifiutata per un periodo, ma da cui lei stessa si è esiliata.

La scrittrice mette piede sulla terra del Sol Levante e da quel momento una troupe televisiva la segue per filmare i posti in cui, per qualche anno, la Nothomb è cresciuta prima di dover lasciare quel posto per lei sinonimo di ricordi. Tante volte aveva pensato di ritornare in Giappone, ma per non deludere le sue aspettative e per crogiolarsi nella bellezza del sogno, che spesso si preferisce alla realtà, aveva sempre rimandato fino a quando quest’occasione imperdibile si è presentata. Nel momento in cui il viaggio si sta per realizzare, lei decide di contattare due persone fondamentali del suo passato: il suo ex fidanzato e la donna che quando era piccola si occupava di lei. Nonostante il timore di essere respinta o di far parte di un passato talmente lontano da renderla quasi una sconosciuta ai loro occhi, decide di incontrarli e di lasciarsi travolgere dalle emozioni, poiché il desiderio di vederli è più forte della paura.

Un testo autobiografico

La nostalgia felice, come molti libri precedenti, è autobiografico. A convincere tutti della sua bellezza sono frasi di questo tipo: “Se il tempo misura qualcosa in un essere umano, sono le ferite.” E ancora: “Capisco che la sensazione più violenta, più profonda, più vera che ho provato in questa mattinata di pellegrinaggio è semplicemente vuoto di senso.” Oltre a toccare temi importanti, tra cui il terremoto devastante di Fukushima del 2011, la Nothomb riesce a mostrarsi senza veli con il suo essere fragile e forte, indecisa e coraggiosa allo stesso tempo, pronta a rischiare una parte di sé per conquistare qualcosa che aveva perso nei meandri della memoria. Una volta atterrata in Giappone, la scrittrice dovrà fare i conti con il suo passato, ma soprattutto con il cambiamento dei luoghi e delle persone, questo scritto prosegue infatti, la sua riflessione che vede a confronto l’Occidente con l’Oriente raccontando le loro diversità in un modo talmente profondo da condurre anche il lettore a pensare con la stessa intimità ai due Paesi.

Con la solita scrittura ipnotica, anche quando non sta dicendo nulla di saggio o sconvolgente, attraverso una semplicità di stile ricco di frasi emotivamente coinvolgenti, Amèlie Nothomb è come se dipingesse su una tela il suo stato d’animo e quello di molte persone che, nonostante tutto ciò che è accaduto, cambiando le loro esistenze, continuano a vivere felicemente e nostalgicamente. Quello che stupisce maggiormente è proprio la sua capacità, lieve ed acuta, di descrivere con pochi tratti, quasi sussurrando, emozioni e sentimenti quotidiani spesso di difficile definizione. La conoscenza delle sfumature del linguaggio ed di alcuni concetti propri della cultura giapponese le permettono un’analisi profonda e matura dello sfaccettato animo umano.

La Natsukashii

In primo luogo, la differenza fra la nostalgia greve degli occidentali che, in quanto negativa e contraria all’ideale imposto dalla società di una felicità a tutti i costi, viene spesso denigrata, e la Natsukashii giapponese, intesa come la “nostalgia felice”. Per noi occidentali i ricordi sono spesso nostalgia; per la cultura giapponese invece la nostalgia è sempre legata a sentimenti di gioia ed è incompatibile con la tristezza e il dolore. L’accettazione del fatto che ciò che si è perso e/o si è lasciato non ci verrà dato una seconda volta rappresenta Natsukashii. E il titolo di questo libro esprime tutto questo contrasto culturale ma anche la descrizione dell’imbarazzo che si prova in certe relazioni di coppia, la pulsione del nulla che ci fa esitare davanti ad occasioni importanti e l’indicibilità di certi avvenimenti.

Il personaggio di Amélie 

Amélie si sente smarrita, ma non sradicata. Ci sono le relazioni a tenerla legata ai suoi ricordi: nel tenero abbraccio con la sua tata, Nishio-san, tornerà bambina, mentre all’appuntamento con Rinri, il fidanzato abbandonato sedici anni prima, dovrà affrontare le sue paure e i suoi imbarazzi, esattamente come quando era la sua ragazza. Non solo: sarà il cambiamento stesso a farla sentire a casa. Come i ciliegi le parevano fiorire con un particolare ardore nel cimitero di Aoyama, così la terra del monte Fuji sembra rinascere più rigogliosa dalle sue ceneri. Nel diario di viaggio di Amélie, infatti, emerge come il Giappone faccia del movimento, della trasformazione, del rinnovamento la sua identità. E lei, “sciogliendosi come un’aspirina effervescente” nella brulicante folla di Tokyo, si sente giapponese provando un’altra impressione esprimibile solo in giapponese: “il kenso”: “…visto che non è il primo kenso della mia vita, riconosco l’impressione tipica di questa trance: la percezione dell’imminenza. Non c’è cosa più folgorante di una simile sensazione: sono sulla soglia di qualcosa che sta per cominciare, c’è un gigantesco inizio che continua a cominciare, non so cos’è, ma quanto si sta perennemente aprendo è immenso, non posso neanche dirlo a nessuno, tanto sta per succedere, qui, qui, adesso, proprio adesso, la parola adesso mi dà le vertigini… mi piace più in giapponese, “ima”, è più breve, si perde meno tempo a segnalare che sta proprio per accadere”.

Il momento del ritorno a Parigi arriva comunque, e sarà un altro passo verso la sua identità nipponica: Amélie, ripensa al viaggio… “vengo svegliata dall’intuizione di dover guardare il paesaggio: apro lo scorrevole del finestrino e quello che scopro mi mozza il fiato. L’aereo sta sorvolando le cime dell’Himalaya, e il loro candore è tale da rischiarare le tenebre. Siamo così vicini alla vetta che trattengo il fiato all’idea di toccare l’Everest. In vita mia non ho mai visto niente di così sublime. Ringrazio il Giappone che me l’ha concesso. Rimango incollata al vetro a fissare quei colossi innevati. Benedetta la notte che rende possibile quella contemplazione: di giorno, la violenza della luce mi avrebbe costretta a distogliere lo sguardo. Costeggio questi giganti in maniera tanto più estatica in quanto loro mi ignorano. Al mio amore reagiscono con l’indifferenza benevola dei capolavori. Quanto amo questa solitudine dello stupore! quant’è bello non dover rendere conto a nessuno di fronte all’infinito! …E subito intervengo: “Giura a te stessa, Amelie, che non sarai mai più triste e neanche malinconica; chi ha sfiorato l’Everest non ne ha il diritto. Il massimo che ti concedo, ormai, è la nostalgia felice”. La natsukashii, un istante in cui la memoria rievoca un bel ricordo che la riempie di dolcezza”.

Questo concetto, oltre a dare il titolo al romanzo, si insinua qui anche nello stile dell’autrice, questa volta, infatti, la corrosiva ironia, cui Nothomb ci ha abituati, sembra attenuata a favore di una tenerezza e morbidezza che rendono quest’ultimo suo lavoro veramente nuovo, un romanzo breve, che scorre come l’acqua, nel quale ancora una volta emerge il talento della Nothomb.

Titolo: La nostalgia felice
Autore: Nothomb Amelie
Casa Editrice: Voland editore
Genere: Romanzo

Di Anna Maria Laurano

È già passato un trimestre pieno dal suo arrivo ad Ascoli; quali sono i nodi principali della sanità picena?

In positivo, sto trovando delle professionalità eccellenti, abbiamo degli ambiti in cui riusciamo a dimostrare competenza e qualità delle cure. Per fare solo un esempio, abbiamo un’ematologia importante e, pur essendo un ospedale di primo livello, abbiamo avuto l’autorizzazione alla somministrazione delle CAR-T, che è una terapia innovativa molto costosa salvavita e quindi il fatto che anche a livello regionale sia stata data questa autorizzazione vuol dire che è stato riconosciuto il valore. La sanità picena non ha nulla da invidiare a città più grandi o a sedi.

Dal lato negativo, questi ottimi risultati si ottengono più sulla buona volontà dei singoli che non sulla base di procedure codificate. Siamo una provincia relativamente piccola dove si conoscono praticamente tutti. Per questo è facile lavorare molto sulla conoscenza personale e abbiamo poche cose formalizzate. Ma la forma è sostanza nella medicina, perché noi dobbiamo seguire delle linee guida, sia per far funzionare le cose bene sia per quando le cose, purtroppo, non hanno funzionato e dobbiamo andare davanti ad un giudice e giustificarci.

Questa è una delle parti sulle quali ho cominciato a lavorare da subito, sia per quanto riguarda la parte degli accordi sindacali, che sono stati un grande risultato della direzione aziendale, sia per quanto riguarda i protocolli più clinici.

Parlato di parti sociali, lei ha impostato subito un grande dialogo, ottenendo anche risultati importanti. Qual è la situazione oggi?

Io parto dal presupposto che i lavoratori della mia azienda, che sono circa duemilaquattrocento, non sono solo miei dipendenti ma anche miei collaboratori, io da sola non vado da nessuna parte. Posso avere le migliori idee del mondo, ma se la squadra non mi segue, non ottengo niente. E se non ottiene niente la squadra, non diamo una buona salute ai nostri cittadini. Quindi, il fatto che i lavoratori fossero scontenti e non ottenessero le indennità di cui avevano diritto, per me era un vulnus aziendale gravissimo, perché questo ha portato ad una disaffezione dal posto di lavoro. Lavorare per migliorare il clima interno, anche dando tutte le indennità economiche di cui i lavoratori hanno diritto, mi sembrava il minimo per poter partire con un’azienda nuova, più unita, che avesse un obiettivo comune: la salute dei concittadini.

La sanità italiana è afflitta dal fenomeno dei “gettonisti”; succede anche nel Piceno e in che dimensioni?

Sì, c’è anche nel Piceno. Ormai, è un dato nazionale, la pianificazione del fabbisogno del personale sanitario non è stata fatta in modo corretto negli ultimi venti anni. L’Europa ci ha obbligato a pagare la borsa di studio ai medici, è stata fatta una pianificazione con un’ottica più economica che di fabbisogno sanitario. Ci troviamo, quindi, ad avere da un lato un numero ridotto di personale, dall’altro delle condizioni di lavoro molto diverse tra pubblico e privato, quindi qualcuno sceglie il privato.

Qui da noi – e io lo vedo come un dato positivo – abbiamo pochi posti vacanti. I due ambiti dove c’è bisogno sono l’emergenza urgenza e gli anestesisti; se trovassi oggi dieci prontosoccorsisti li assumerei tutti e dieci, mentre in tutte altre le branche specialistiche abbiamo un posto vacante, massimo due, una quantità superabile con l’organizzazione del lavoro.

Il pronto soccorso vive di più questa difficoltà, per far fronte alla quale le Aziende hanno due armi: le aggiuntive e i “gettoni” delle cooperative.

Con le aggiuntive paghiamo in più i nostri dipendenti: al di sopra di un certo numero di ore, se sei disponibile, vieni pagato “in aggiuntiva” che è una quota oraria. Il contratto collettivo dice sessanta euro all’ora, mentre se le fai all’interno dei pronto soccorso arriviamo fino a cento euro l’ora. Le aggiuntive noi le diamo per due motivi: la carenza di personale o per il recupero delle liste d’attesa.

Il gettone dell’esterno è il gettone della cooperativa. Noi, per il momento, ce l’abbiamo solo a San Benedetto e solo in pronto soccorso, da circa un anno e mezzo, con circa cinquanta ore settimanali, che coprono un medico e mezzo, per garantire la dotazione minima in pronto soccorso che sono almeno due medici h24. D’estate abbiamo avuto più accessi e quindi un rinforzo estivo.

Ultima tema, quello delle liste d’attesa. Dove andiamo meglio e dove dobbiamo lavorare?

Il problema delle liste d’attesa va ridimensionato e visto sotto un’ottica diversa. Io ho un problema clinico se ho un paziente con una patologica grave, cronica e acuta e non riesco a curarlo. Questo non succede, perché i canali di accesso alle prestazioni per l’urgenza, per il cronico e per il grave ci sono e sono pressoché sempre garantite.

Poi è vero che i cittadini hanno diritto ad una quota di prestazioni in caso di insorgenza di un sintomo nuovo o nell’ambito della prevenzione. Il problema nasce quando il cittadino pretende una serie di controlli indipendentemente dalla patologia di base. Infatti, in sanità maggiore è l’offerta maggiore è la domanda e noi stiamo dando molte più prestazioni di quelle che davamo nel 2019, nostro anno di riferimento. Secondo me, va ricalibrata l’appropriatezza delle prestazioni, proprio per valorizzare il nostro sistema sanitario.