Leggere “Non so niente di te” di Paola Mastrocola (Einaudi, 2013) è un regalo che facciamo a noi stessi. La scrittura è piacevolissima, ironica e con un bel ritmo. La storia è avvincente sia nella forma che nei contenuti, ma facciamo un passo indietro.

Paola Mastrocola nel presentare il suo saggio “Togliamo il disturbo” afferma che è da leggere come “una battaglia, un atto di accusa”. “Non so niente di te” è la sua “personale preghiera ai giovani perché scelgano loro, in prima persona, la vita che vorranno”. Queste parole rappresentano in maniera inequivocabile il cuore e la direzione della sua scrittura. Il suo sforzo costante di opporsi a mali quasi invisibili insinuati nelle nostre vite e mostrano la volontà di affermare il diritto a una libertà vera e sentita. Ecco, queste parole si riconoscono anche nel  romanzo “Non so niente di te”. Stessi temi, dunque, ma declinati seguendo generi totalmente diversi.

Non so niente di te. Lo stile dell’autrice

La sua impronta è inconfondibile: una scrittura ironica e una grandezza che sta nel parlare di cose semplici ma universali. Il romanzo mette in campo infatti grandi temi come la libertà o il tempo; temi sostenuti sempre da una leggerezza dal sapore calviniano. La scrittrice gioca con i piani temporali, con le prospettive: la storia è raccontata da un futuro che volge indietro lo sguardo a quello che in realtà è il nostro presente e la nostra società. “Insomma è romanzo un po’ presbite un po’ miope. Forse ho messo insieme due difetti della vista. Forse sentivo il bisogno, per vedere meglio, di allontanare gli oggetti e poi di avvicinarli.” Come una divertente commedia degli equivoci, un po’ bizzarra e surreale, dove i personaggi si rincorrono senza mai trovarsi. Dove il protagonista, di cui si è parlato fin dalla prima riga, appare solo a pagina 229 come in una pièce teatrale.

Gli interrogativi di un grande romanzo

Il romanzo  insinua nel lettore dubbi e riflessioni. Cento domande si rincorrono nel libro e, come succede nella vita: qualche volta una frase, una frase sola, semplice e saggia, finisce per rispondere a un grande interrogativo. L’autrice ne fa dire una così ad un pastore cieco ma felice. “Se non son gaie, le pecore, fanno una lana triste, e il latte anche non é buono”. Ed ecco una verità che vale tanto per gli animali che per gli umani, che in questo romanzo vagano da una parte all’altra del mondo come un gregge sperso, alla ricerca di una verità che faccia loro da luce-guida. Umani dalle facce tristi perché hanno dimenticato come si fa ad essere felici. La situazione iniziale che viene presentata è piuttosto singolare.

La trama di “Non so niente di te”

Filippo Cantirami, giovane economista, arriva in un prestigioso college di Oxford nel quale in veste da relatore dovrà esporre un innovativo algoritmo che potrebbe rivoluzionare gli studi sulla crisi economica. Dov’è la stranezza? Irrompe con un gregge di pecore Suffolk, ben centosessantotto. Fil è uno studente ideale, un figlio ideale, laureato alla Bocconi. Egli è uno studente alla London School of Economics e infine dottorando a Stanford, ma quell’evento inverosimile aprirà una voragine nel disegno perfetto della sua vita. Questo l’incipit da cui si diramerà la storia, o per meglio dire le storie che seguiranno un andamento dal sapore cinematografico. Verrà composto un vero e proprio puzzle in cui le vicende si alternano ma procedono parallele verso lo stesso obiettivo, catturando così l’attenzione del lettore. Fil sparisce lasciando dietro di sé solo domande. Ciò che seguirà si giocherà sul motivo dell’inchiesta, della ricerca. Oggetto e soggetto sarà Fil stesso che andrà alla ricerca dentro di sé di qualcosa che non sa ancora definire.

Modello imprescindibile sembra essere quello ariostesco. La famiglia viene scossa e ciascuno comincia la propria personalissima ricerca. Il padre col suo fare pragmatico cerca spiegazioni logiche. La madre spaesata riavvolge il filo del passato, crede di poter recuperare questo vuoto andando a ritroso nel tempo e incontrando persone che hanno fatto parte. Cercare un tassello alla volta, per comporre l’immagine di un figlio sconosciuto alla propria madre. Interessantissima sarà la figura di zia Giù legata a Fil da un rapporto unico. Può essere definita una donna sopra le righe, ma solo se per righe intendiamo i confini mentali imposti dalla società. Figlia dell’alta società decide di lavorare come guardarobiera di una biblioteca centrale per contemplare la bellezza della vista e ammirare lo splendido pavimento in porfido. Il suo è un animo fine e ambiguo ma non riconosciuto, è una donna che ha puntato tutto soltanto sulla felicità individuale.

La magia dell’ultimo paragrafo

L’ultimo paragrafo è un regalo inaspettato al lettore. Il nastro viene mandato avanti, la storia narrata si ridimensiona in una prospettiva ampia di vita. Si gioca di nuovo con i punti di vista e il messaggio diventa universale. La conclusione si muove su accordi lievi e malinconici che sfociano in una sorta di catarsi. Fil decide una cosa banalissima e rivoluzionaria. Scegliere che direzione dare alla propria vita e prendersi la vera libertà di poter trascorrere un’esistenza secondo il proprio animo. Il cuore del romanzo si trova nell’idea di libertà ma propone anche un’idea di tempo scomoda nel mondo della comunicazione spasmodica, della velocità e della produzione costante e frenetica.

“Lui voleva accorgersene, invece, della vita. Erano troppo belle le ore lunghe. Non saper che fare, mettersi su un sedile, distendere le gambe, chiudere gli occhi. O tenerli aperti a guardare la gente, leggere, camminare un po’, andare fuori, fumarsi una sigaretta, prendere qualcosa al bar. Le sale d’attesa. Oh se la vita fosse questo: una gigantesca sala dove aspetti, e intanto giri, e fai, e pensi. E il tempo passa, e tu telo prendi.”

É una fiaba sulla conoscenza e sull’amore questo romanzo della Mastrocola, ma anche sul rapporto genitori- figli. Sull’amicizia e il tarlo dell’invidia. Sul labile confine che spesso intercorre tra timidezza e fermezza, e sui nostri giorni. Giorni in cui il tempo sembra avere perso il suo vero senso, svuotato com’é dalla profondità e dalla sua preziosa variabile lenta. Non una fuga alla Pinocchio, ma una lezione degna di un principe Siddharta. L’individuo di fronte alla storia può anche scegliere il rifiuto per ritrovare, alla fine, il vero sé stesso.

di Anna Maria Laurano