Nove sono i minuti di applausi ricevuti da The Killers of flower moon durante la prima proiezione allo scorso festival di Cannes. Un gesto che sottolinea l’apprezzamento critico verso quest’opera ma che non basta ad esprimere tutto il valore artistico che questa pellicola nasconde. Martin Scorsese, regista del film, dirige una pellicola che cinicamente restituisce un estratto dell’origine della storia americana contemporanea. Un’origine sviluppata attraverso il sangue e la sopraffazione verso il prossimo.

La trama di The Killers of flower moon

Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio) è un giovane reduce americano della prima guerra mondiale che decide di trasferirsi dallo zio, William Hale (Robert De Niro), nella cittadina di Fairfax in Oklahoma. La ricchezza della città è detenuta dallo popolazione nativa degli Osage che decenni prima hanno scoperto ingenti quantità di petrolio nel sottosuolo delle loro terre. In questo clima di prosperità William Hale vuole rubare agli Osage i loro diritti petroliferi per arricchirsi ed è pronto a tutto per farlo. Nel suo piano primaria sarà la funzione di Ernest Burkhart, sopratutto dopo il matrimonio di quest’ultimo con una nativa americana molto ricca, Mollie Kyle (Lyly Gladstone)

Come in un romanzo

The Killers of flower moon mostra la capacità dell’uomo di distruggere tradizioni, uomini, popoli solo per il suo tornaconto personale. Se la tematica può sembrare banale certo non può definirsi ipocrita. Il film ambientato negli anni ’20 presenta l’origine di molte contraddizioni e storture tipiche della nostra società. Una grossa critica sociale messa in scena in maniera magistrale come fosse un romanzo visivo: i personaggi sono scritti, e poi presentati nello schermo, in maniera frammentata. Come in un libro scopriamo lentamente le caratteristiche e la personalità delle figure che vediamo nello schermo. Tutti i personaggi hanno uno scopo nella narrazione e tutti si mostrano a noi furtivi e schivi. Il male continuamente evocato non viene mai ostentato. Si cela nell’animo umano e siamo in grado di scoprirlo, noi spettatori, solo con una visione attenta.

Scorsese non mostra solo il genocidio della popolazione nativa americana ma mostra l’evoluzione dello scontro tra gli uomini. Prima le guerre erano realizzate tra persone prossime; io che vengo attaccato vedo il mio nemico che mira con il fucile verso di me. Ora è tutto diverso. Il regista suggerisce come ora le guerre sono delle potenti macchinazioni in cui gli uomini uccidono il prossimo sotto traccia, instaurando accordi e patti che demoliscono l’altro fisicamente e moralmente.

Perché non scegliere il punto di vista dei nativi americani per mostrare i loro sterminio?

Se diamo per buono l’obbiettivo di Scorsese di mostrate un nuovo scontro tra gli uomini dobbiamo assodare come l’unico modo per mostrare al meglio tutto ciò sia quello di immergersi nella mente e nelle azioni dei coloni che sfruttano e ingannano il prossimo. Scorsese ha il merito di mostrarci la costruzione di una catena fatta di legami scorretti che lega la libertà degli Osage senza possibilità di liberarsi. Il punto di vista dei nativi è volutamente nascosto perché confuso e frammentato alla ricerca di una verità che non sanno dove sia. Sono continuamente attaccati ma sono ciechi perché non riescono a capire qual è il loro nemico.

Non spaventatevi dalla durata. I 206 minuti che compongono l’opera servono tutti. Ogni evento, ogni dettaglio serve per comprendere ciò che vediamo, collegato ad hoc verso un finale rivelatore. Una storia non facile, difficile da digerire che non lascia spazio al divertimento.

Voto film 8/10

di Quinto De Angelis