di Giorgio Rocchi

Don Luciano Carducci ha una classe d’altri tempi ed un entusiasmo coinvolgente. Incontrarlo è come una “ricarica” per chi lo ascolta: non sembra che la sua ordinazione sacerdotale sia una storia di 70 anni appena compiuti, lo scorso 12 aprile. Premurosa la sua delicatezza, sempre pronta la sua ironia, effervescente il suo parlare, qualità che fanno rima con umiltà.

Mentre si dichiara pentito di averci concesso questa breve intervista, gli occhi brillano di vivacità quando la memoria “pesca” qualche episodio, cominciando da quelli che lo legano, negli anni ’70, con La Vita Picena di cui è stato amministratore (la testata era edita a quel tempo con il nome de Il Nuovo Piceno) e coordinatore dei redattori del calibro di don Antonio Rodilossi, don Baldassare Riccitelli, il maestro Clerici, per anni, per lasciare poi la direzione del periodico a Don Giuseppe Giuliani.

“Lavorare al giornale diocesano esponeva soprattutto a critiche da parte dei confratelli sacerdoti, rarissimi i complimenti, ma arrivavano anche quelli, rarefatti ma arrivavano”, dice don Luciano nel corso del nostro incontro dopo la celebrazione della santa messa nella sua Offida.

Gli chiediamo: che giorno era quel 12 aprile 1952? Chi eravate?

“Era la veglia di Pasqua, un’emozione fortissima. La mia Messa novella il giorno di Pasqua nella Collegiata di Offida. Ordinati in cinque: Don Angelo Bellini, Don Ivo Bonfini, don Florano Cicchi, io e Don Luigi Della Torre che da Pizzighettone si unì al nostro gruppetto in prima teologia dopo il suo biennio di ingegneria al Nord. L’ho rivisto in occasione del 40mo di ordinazione, lui che aveva girato il mondo e pubblicato innumerevoli libri come liturgista e teologo affermatissimo a livello internazionale. Ma anche tutti gli altri belle personalità, di quel gruppo ero il più giovane ed oggi ci sono rimasto solo io.”

Celebrare la santa Messa, come fosse la prima, ancora dopo 70 anni è possibile? C’è un “segreto”?

“Non solo è possibile, ma ogni volta si “capisce” di più quello che si celebra, si ha la possibilità di vivere intimamente il rapporto con Gesù, tra le nostre mani … una grande responsabilità ma anche una grande gioia e consolazione. Il segreto è …Gesù. E poi all’inizio celebravo con le spalle al popolo, sembrava una cosa personale, poi il tutto diventa “nostro” tra celebrante ed assemblea. La dossologia si chiude con l’Amen di tutti, una partecipazione vera alla liturgia di pari passo con la riscoperta del ruolo dei laici”.

Una gran bella storia: inizia con la lingua latina ma poi … le lingue della gente, in tutto il mondo e don Luciano in italiano…

“adesso è più bello e tutti dobbiamo sentirci coinvolti nel preparare bene la celebrazione, dai lettori a chi serve all’altare, all’ascolto della Parola con attenzione. Certo ho iniziato in latino, ricordo che da seminarista, d’estate, quando tornavo a casa mi mettevo a spiegare cosa “diceva” il sacerdote nella messa, in questo aiutato anche dai sussidi in italiano che stavano iniziando a girare grazie al movimento Opera della Regalità. La liturgia così è diventata più bella”.

E poi la messa senza popolo per il lockdown per contrastare la diffusione del Covid19 …

“una grande tristezza: noi siamo fatti per il popolo. Non avere contatto con la gente è stato difficile, ho tenuto tutti nel cuore. Una condizione dolorosa ma necessaria per la salute di tutti, specie dei più fragili. Ora riprendiamo, anche se qualcuno ancora preferisce restare a casa, forse per comodità”.

Anni in cui si poteva sognare il futuro: oggi è ancora possibile sognare cambiamenti? Il mondo, la chiesa tutta in sinodo…

“intanto la sfida è con una mentalità diversa, nuova con nuove esigenze rispetto ai miei inizi dove la fede era meno “sfidata” oppure contrastata in modo diverso. Oggi anche fare, meglio, essere sacerdote è più difficile, ma è una straordinaria opportunità per portare la speranza attraverso il rapporto con gli atri. Oggi mancano i rapporti, ci sono sì contatti ma spesso non rapporti… eppure siamo in un villaggio dove ognuno dà e riceve. Anche la “voce” della Chiesa ha cambiato “peso” nel vissuto delle persone, ma vedo che questo vale anche per i genitori in famiglia. Dobbiamo aiutare a recuperare rapporti personali.”

Quali sono state le comunità affidate a don Luciano, cosa pesca nei suoi ricordi?

“Nel dicembre 1952 vengo mandato ad Abetito di Montegallo, dirottato all’ultimo minuto dalla destinazione che mons. Ambrogio Squintani mi stava assegnando a Basto di Valle Castellana dove, grazie ad un contributo di Pio XII di 200.000 lire, si doveva costruire la casa parrocchiale… ad Abetito la comunità era scoperta e lì c’erano già la casa e la luce, indubbiamente un vantaggio ma anche una grande salita fattami fare a cavallo con la mia valigia, sistemandomi per sei mesi presso una famiglia per poi stabilirmi nella casa parrocchiale.

Fui accolto qualche giorno dopo, il 5 gennaio 1953, da una grande nevicata, la prima di tante. Lì sono stato sei anni, un periodo in cui anche la parte “sociale” mi impegnava perché ci fossero interventi per migliore la qualità della vita delle persone tipo una cabina elettrica, opere stradali ed idrauliche, insomma tutto quello che poteva servire per la logistica della comunità in cui mobilitare Ministeri, Cassa per il Mezzogiorno, Consorzio Bonifica Tronto. E’ di quel tempo l’assegnazione dei lavori alla nascente impresa edile di Costantino Rozzi che lì ha eseguito il suo primo lavoro. Insomma eravamo nel dopoguerra …. Tanto da fare in tutti campi.

Poi, al tempo del vescovo Marcello Morgante, sette anni parroco a Villa San Lorenzo di Amatrice, un altro ambiente rispetto a quello precedente con tanti che lavoravano a Roma e tornavano periodicamente alle rispettive case di origine Chiesi di restare in diocesi di Ascoli quando furono rivisti i confini diocesani tra Ascoli e Rieti e così fui mandato per un anno e mezzo a Vallesenzana, successivamente per la stessa durata a Santa Maria a Corte, per “rientrare” su Offida il 1 settembre 1969 come parroco dei Santi Pietro e Martino.

Con il riassetto delle 5 parrocchie offidane e l’abbandono dei padri agostiniani e poi dei sacramentini che erano stati in Sant’Agostino, nel 1986 sono stato nominato rettore del Santuario del Miracolo Eucaristico. Nel 2001 il Vescovo Silvano Montevecchi ha eretto la chiesa santuario diocesano e chiesa giubilare del Grande Giubileo dell’anno 2000”.

E così Sant’Agostino, il Miracolo Eucaristico lì custodito, le 14 chiavi per accedere al telo, al coppo insanguinati dal Sangue di Gesù ed ai frammenti dell’Eucaristica trasformata in Carne…

“Direi la storia di un innamoramento graduale. Rendersi conto dell’Eucaristia e dei miracoli non è fondamentale per la fede, mentre è la stessa Eucaristia a dirci che Cristo è sempre vivo, che è lì presente Lui stesso. I segni aiutano e le 14 chiavi, una volta distribuite tra più persone, vogliono sottolineare l’importanza e la “preziosità” di quanto è custodito, cioè Gesù stesso e quindi anche da proteggere. Che si trattasse di una custodia molto importante ne avevano consapevolezza tutti, anche all’epoca tanto che il fabbro ha firmato le chiavi più importanti incidendo il suo nome mastro Surronio. Questo fatto delle chiavi colpisce molto i tanti pellegrini che vengono a pregare davanti al Miracolo Eucaristico.

E’ per me una grande gioia tornare ad accogliere bambini che si preparano all’incontro con Gesù nell’Eucaristia, i giovani ed le coppie di fidanzati che vengono a chiudere i loro incontri parrocchiali di preparazione al matrimonio, i gruppi di preghiera, le famiglie ed i tanti pellegrini da ogni parte del mondo. Scorrendo con la memoria questi anni, davvero posso dire che da tutto il mondo sono venuti ad Offida. Finalmente quest’anno, il 3 maggio, è ritornata la festa e la processione con la gente, dopo un biennio in cui la processione con il reliquiario eucaristico della Croce Santa ha visto per le vie di Offida solo il sindaco, il maresciallo dei carabinieri ed i sacerdoti. Una grande gioia avere avuto il Vescovo Gianpiero tra noi, veramente rigenerante per tutta la comunità”.

Una bella storia di fedeltà, una carica di entusiasmo aumentata nel tempo, eppure ci sarà stato qualche momento buio…

“Certamente, come tutti, specie in una vita lunga, difficoltà e momenti critici sì ma buio mai, grazie a Dio. Stando con la gente si riceve molto e non si smette mai di ricevere. Per il mio cinquantesimo, venti anni fa, la comunità di Abetito mi ha voluto festeggiare facendomi tornare lassù … commovente rivedere volti o rinnovare ricordi con i parenti di chi è già in Cielo”.

Oggi che tutto si consuma che significa la parola fedeltà?

“Credere nella scelta che si è fatto, rinnovandola chiedendo aiuto al Signore, e mettendola a disposizione, vivendo in relazione ed accompagnando, perché solo così si riceve anche tanto e ci si realizza come persona e come sacerdote e così la fedeltà è una strada percorribile”.

Con “il privilegio dell’anzianità”, come dice Papa Francesco parlando dei sacerdoti anziani, cosa dire ai giovani sacerdoti?

“Intanto gli auguri per la scelta bella, forte ed esigente del loro “sì” totale al Signore. E poi un incoraggiamento a curare quotidianamente la vita di fede e l’amicizia sincera con i confratelli. Nelle difficoltà che, non nascondiamoci, potranno non mancare, saranno molto di aiuto sia la fede che la trasparenza di una bella amicizia”.

Un sogno, un desiderio?

“E’ almeno dal mio sessantesimo di ordinazione, già uno straordinario anniversario, che sono al mio “nunc dimittis” ma certo che, nel vedere una crescente mancanza di fede, chiedo e spero che ci si accorga che allontanandoci dal Signore ci siamo impoveriti, tutti. Sogno che il Sinodo ci aiuti nel cammino di una Chiesa bella e capace di camminare in unità e con tutti gli uomini amati dal Signore, per riscoprire Lui vivo e presente nell’Eucaristia, per la gioia di ciascuno e la vita del mondo”.