L’intervista a Rossella Bruni, direttrice dello stabilimento Pfizer di Ascoli

di Stefania Mistichelli

 Con centotrentamila confezioni di farmaci che ogni anno partono verso cento paesi in tutto il mondo e più di novecento dipendenti senza considerare l’indotto, lo stabilimento Pfizer di Ascoli, che questo anno compie cinquant’anni, è sicuramente strategico per il territorio.

In occasione di questo importante traguardo, abbiamo intervistato la direttrice dello stabilimento Rossella Bruni.

Come sa, la vostra realtà aziendale è fondamentale per il Piceno, ma capovolgo la domanda: quanto è importante per lo stabilimento Pfizer il radicamento sul territorio?

Per noi è importantissimo ed è una cosa di cui andiamo molto orgogliosi. Dico questo perché la realtà farmaceutica ad Ascoli, a differenza di quella di altre città, è un po’ isolata. Normalmente in Italia, come nella parte sud di Roma o a Milano o anche in Abruzzo, esistono dei poli farmaceutici, cioè delle aree in cui le aziende farmaceutiche sono particolarmente concentrate e dove è possibile uno scambio di competenze. Ascoli, al contrario, è una realtà un po’ a sé stante. Qui le risorse le costruiamo, le formiamo, per questo la nostra forza è nel territorio; la maggior parte dell’indotto e dei colleghi con cui lavoriamo è parte del territorio; siamo come una famiglia. Da noi l’indice di retention, cioè la capacità di una società di trattenere talenti e competenze, spesso critico in molte realtà, è molto alto, ed è proprio frutto di questo radicamento nel territorio che genera un mutuo attaccamento.

Inoltre, questo clima di famiglia, di comunità che cresce insieme, ha generato un aspetto solo apparentemente autoreferenziale: le nostre persone hanno una grande passione e motivazione, secondo me frutto sia della cultura con cui è cresciuto lo stabilimento, certamente condizionato dal forte spessore valoriale della compagnia, sia arricchito da questa forte integrazione con il territorio.

 Cosa consiglia ai giovani che stanno per entrare nel mondo del lavoro?

Questa domanda mi fa pensare al mio primo giorno in azienda. Ho studiato Chimica Farmaceutica a Camerino. Quando mi chiamarono alla Pfizer pensavo fosse per un colloquio di lavoro, mentre invece era per uno stage non pagato. Tra l’altro, lo stesso giorno avevo anche l’esame per una borsa di studio per un dottorato di ricerca in Scozia, che poi vinci. Pensai: “faccio questi sei mesi di stage e poi parto”, visto che la borsa di studio poteva essere sospesa. In realtà non sono mai andata via, il lavoro mi è subito piaciuto moltissimo. La cosa che mi è piaciuta di più è stato il fatto che quei sei mesi sono stati realmente un’esperienza di lavoro e di crescita. Da quel momento, l’azienda mi ha permesso di cimentarmi in tanti settori diversi. Uno dei consigli che do ai giovani è di maturare un’esperienza e di non aver paura del cambiamento, perché coprire ruoli differenti è fondamentale per acquisire esperienze in altri ambiti e crescere.

Altro consiglio che mi sento di dare ai giovani è di avere il coraggio di uscire dalla propria area di comfort e andare all’estero: nella nostra realtà aziendale diamo spesso opportunità ai giovani di aprirsi all’esterno con esperienze internazionali, non con l’obiettivo di trasferirsi per sempre ma di crescere.

 Le aziende farmaceutiche sono spesso al centro di fake news o vittime di teorie complottiste. Come ci si difende da questi atteggiamenti?

La lotta alle fake news è una lotta impari, perché qualsiasi cosa io dica potrà sempre essere smentita. Quello che, invece, l’azienda può fare è da un lato distinguere la multinazionale dallo stabilimento locale, fatto da persone del territorio, e dall’altro lato lavorare sulla propria reputazione in modo positivo, con dati certi, raccontando quello che l’azienda fa in termini di responsabilità sociale, sostenibilità energetica e ambientale, benessere dei colleghi, impegno nella comunità. Noi, per esempio, abbiamo avviato uno stage per donne fragili, che per diversi motivi non sono ancora integrate nel mondo del lavoro, e lavoriamo costantemente con le scuole, dalle medie fino all’università, per garantire la parità di genere, per far capire cioè che ci sono opportunità per le ragazze anche nei settori dell’ingegneristica e della meccanica. Se, infatti, nel settore chimico e biologico la situazione negli anni è molto cambiata, con un ingresso importante di ragazze e di donne, nel settore dell’ingegneria e della meccanica il divario è ancora ampio.