L’ultimo lavoro di Murakami è il suo primo memoir.

Nei suoi romanzi e racconti Murakami con il suo “realismo magico” ha reso credibile l’incredibile, ha dato corporeità ai sogni. Questa volta però non ci sono mondi paralleli ad aspettarci, ma il frammento del suo mondo personale, “un frammento anonimo della storia” che Haruki ci racconta,come farebbe un vecchio amico “qualunque” che bussa alla nostra porta in una serata malinconica di pioggia.

Malinconia: è questa la nota tonale del testo, insieme al silenzio.

Ci sono tanti non detti in questo libro. C’è la frustrazione di un figlio che non può più fare le domande a un genitore, c’è il rimpianto di non essere stato in grado di compiacere il padre e tantissime di quelle sensazioni che chi ha perso un genitore conosce bene. Con “Abbandonare un gatto”, Murakami scrive per la prima volta della sua famiglia, e in particolare di suo padre. Ne nasce un ritratto toccante, un haiku psicologico, leggero, elegante e potente come solo la scrittura giapponese sa essere. Il racconto sincero del «figlio qualunque di un uomo qualunque ». E forse proprio per questo speciale. È nella semplicità infatti che risiede la bellezza della storia che è anche poesia visiva, perché traduce in immagini questo delicato racconto autobiografico, Emiliano Ponzi, e, con i suoi colori aggiunge poesia alla poesia.

“Abbandonare”…iniziare un racconto autobiografico con un verbo simile è una spia linguistica significativa… Chi è stato abbandonato? Sicuramente non il figlio come evidenzia il racconto, ma poi l’autore spiega, anche se a proposito di  un altro evento traumatico, “quel pesante fardello che mio padre si portava dietro- oggi si direbbe il trauma-lo ha poi trasmesso in parte a me, suo figlio.” Forse allora l’autore,anche se ha ricevuto nella sua infanzia le cure dovute ha, in qualche modo sentito su di sé un senso di abbandono,quello provato dal padre perché, “è così che funzionano le relazioni umane, è così che funziona la storia” Avviene “sostanzialmente il trasferimento di un’eredità e un rito”.

Perché però proprio un gatto?

Dato che i gatti per lui “ figlio unico erano amici fantastici e insieme ai libri compagni preziosi”? Il gatto è da sempre simbolo di indipendenza emotiva, oltre che ovviamente agilità, eleganza, leggerezza. E’ allora forse metafora dei protagonisti? Padre e figlio, nel breve racconto, risultano in effetti personaggi emotivamente autonomi, forti, capaci di perseguire progetti ma anche di adattarsi alle circostanze, al caso. Sono amanti della bellezza che il padre esprime nella composizione degli haiku e il figlio nella scrittura di romanzi, ma il loro stile è simile, trasparente, luminoso, chiaro. L’autore ci regala poi un altro ricordo della sua infanzia in cui è coinvolto un gatto. Questa volta è “un gattino bianco…una sera mentre stavo seduto in veranda vidi un gattino arrampicarsi velocemente su un pino, sembrava volesse mostrarmi com’era agile e coraggioso. La velocità con cui era salito mi lasciò stupefatto… però a un certo punto il gatto cominciò a lamentarsi,…i gatti sono bravi a salire ma non a tornare giù…E’ un ricordo della mia infanzia che mi ha lasciato una forte impressione. Inoltre mi ha insegnato una cosa importante: nella vita, scendere è molto più difficile che salire”.

Con il gattino bianco il cerchio si chiude e la metafora acquista chiarezza: la prima gatta, quella abbandonata, torna da sola a casa provocando “stupore, poi ammirazione, poi sollievo”, per il superamento dell’abbandono, della difficoltà, con la vittoria della disciplina sul caso avverso, il gattino bianco che rimane paralizzato dall’altezza cui è giunto nella sua autonoma ricerca di libertà, insegna all’autore che “scendere è più difficile che salire… la difficoltà di tornare giù sulla terra, tanto lontana da dare le vertigini”, insegna che spesso “per tutta la vita consideriamo un destino eventi che dipendono dal caso….”, che il caso può averla vinta sulla volontà. La storia dei due gatti introduce così, forse, il dilemma fondamentale della vita di ogni uomo, dilemma che riguarda lo scontro tra volontà e destino, libertà e necessità. “Quando immagino una di queste eventualità, capisco che sarei potuto non nascere ed è una sensazione davvero strana, non esisterebbe la mia coscienza, non esisterebbero i libri che ho scritto… a questo pensiero, il fatto stesso che io , piccolo scrittore, sia vivo, mi sembra un’illusione priva di realtà…. Il mio significato in quanto individuo poco per volta perde chiarezza”.

Dicevamo non ci sono mondi paralleli, ma, anche in questo racconto autobiografico, ciò che c’è di più vero, ciò che si nasconde dietro la “claritudine” della semplicità è espresso in forma simbolica, in forma di codice, consentendo così all’autore di manifestare finalmente i suoi veri sentimenti: questa è infatti la funzione metaforica degli haiku che “al di là di un mondo di quiete e serenità” lasciano intuire l’eco del caos, del caso. La riscrittura degli Haiku della figura paterna non sono solo perciò solo un soffio poetico ma anche l’occasione di riflessione del rapporto tra tecnica ed emozione. Ed è questo uno dei messaggi dello scrittore: impariamo a vivere la memoria come riscatto. Affidiamo le nostre paure ad aquiloni che ci faranno intravedere il Cielo e la bellezza di emozioni sopite.

“E più scrivo, più leggo e rileggo, più provo la strana sensazione di diventare trasparente. Se alzo una mano verso il cielo, a volte, ho l’impressione di poterci vedere attraverso.”

di Anna Maria Laurano

Murakami Haruki

Traduttore: Antonietta Pastore

Illustratore: Emiliano Ponzi

Pubblicato da:Einaudi

Data uscita:17/11/2020